Queste riflessioni sono state scritte in occasione dell’incontro conclusivo di un ciclo dedicato al tema “I mille volti delle donne” organizzato dall’associazione Città delle Donne (2017). Nel film Ossessione, di Luchino Visconti, due volti di donna spiccano per la loro differenza in una situazione politica e socioculturale poco favorevole all’umano in genere ma soprattutto alle donne.
Prima di entrare in merito al nostro tema, vorrei ricordare il lavoro di uno psicanalista scomparso da poco, Salomon Resnik, nato nel 1920, non molto tempo dopo Visconti nato nel 1906. Perché ricordare la sua figura in questa occasione? Perché c’è un tratto particolare del lavoro di Resnik che attraversa questo film: l’infantile, cioè la curiosità, la mancanza di pregiudizio, la capacità di giocare, di muoversi liberamente tra le immagini, le metafore, le idee, di chi ci ha preceduto, dei nostri coetanei e le proprie, per attingere, trovare e costruire, fare nuovo, dare vita a un nuovo senso.
Resnik era profondamente convinto della fertilità di quella parte infantile che è in noi. Figura di riferimento nella cura psicoanalitica della psicosi, egli affermava che la parte infantile è la parte sana nello psicotico, come nella persona cosiddetta normale direi, la parte più autentica di noi con la quale si può lavorare.
Far nuovo, dare vita a un altro senso
Mi lascerò quindi guidare dall’infantile nell’introdurre il film Ossessione, non solo perché come afferma Massimo Girotti in un’intervista: “Il tema primo di quel film era la libertà”, e perché tale tema si svolge, nella mia lettura, attraverso quello dell’infantile – vedremo come – ma anche perché lo stile del film è innovativo. Girato nel 1943, in pieno fascismo e seconda guerra mondiale, una volta apparso nelle sale cinematografiche è stato ritirato e fortemente tagliato. Esso fece scalpore non solo per i contenuti, vi è una grande attenzione alla connotazione interiore dei personaggi che da sola, senza toccare la tematica politica, mette in evidenza il conflitto tra libertà e schiavitù all’interno della relazione affettiva.
Inoltre lo stile è inedito: Visconti stesso afferma che il neorealismo nasce con Ossessione – in effetti è il montatore del film, Mario Serandrei, a introdurre questo termine, neorealismo per indicare il nuovo stile. Il film ci meraviglia per i tempi in cui è stato realizzato, ma se ci riflettiamo risulta perfettamente adeguato al tipo di letteratura e arte che caratterizza il primo Novecento. Joyce, Kafka, Proust, Pirandello, Svevo sono nati a fine ottocento e le loro opere più importanti escono nei primi trent’anni del ‘900; coetanei di Visconti (1906) sono Beckett, Buzzati, Vittorini (1908), Calvino (1923).
Ispirato al romanzo di James Cain, Il postino suona sempre due volte, Ossessione si avvale di due attori eccezionali nell’interpretazione, Clara Calamai e Massimo Girotto. La storia è molto semplice, il suo svolgimento psicologicamente attento. Un viandante entra in uno ‘spaccio’, uno di quei posti dove all’epoca si vendeva da bere e da mangiare. Vi trova una donna, Giovanna, molto attraente e seducente, che ha sposato il proprietario dello spaccio, Bragana, un uomo molto più anziano di lei, per tirarsi fuori dalla povertà e dalla necessità di dare il suo corpo in cambio di un piatto e un alloggio per la notte. Non ama il marito ma la sua scelta le permette una vita sicura.
Nella prima parte del film troviamo tutto il materiale più importante che caratterizza i tre personaggi principali e soprattutto il movimento seduttivo messo in atto da Gino e Giovanna.
L’amore del particolare.
Il film è fatto di particolari, l’amore per i dettagli non ci lascia insensibili, ad esempio l’inquadratura del passo di Gino mentre entra nel locale. Gino è un viandante, non è un barbone.
Non ha calze ai piedi, come noterà Giovanna, ma le calze non gli servono; gli servono i piedi, ogni tanto mangiare, un carro sul quale salire di nascosto per spostarsi da un luogo all’altro, per viaggiare, vedere genti, modi di essere e fare differenti. In questa totale dedizione al viaggio e allo spazio aperto davanti a sé, egli è una persona furba ma semplice, che può chiedere aiuto ma anche sedere su un treno senza pagare il biglietto, perché non possedendo nulla, non ha nulla da perdere … se non il suo passo leggero, il movimento seduttivo e indolente dei suoi piedi senza calze.
In Gino vi è un’ostentazione della povertà che ri-vela il fascino del corpo sotto gli abiti laceri. Pensate alle prime parole che Giovanna gli rivolge: “Hai le spalle come un cavallo”.
Gino entra nel locale e chiama ma invece di una cameriera gli va incontro il canto civettuolo di una donna; inequivocabile canto delle sirene?
Lui chiama per farsi sentire, non sa cosa lo attende. Lei canta, non sa chi è l’uomo che risponderà al suo canto e cosa domanda, ma sa cosa lei stessa vuole: l’amore e l’ “orologio d’oro”.
Una storia narrata attraverso i volti
Prima abbiamo parlato del movimento del corpo, adesso osserviamo il volto dei personaggi.
Gino è un seduttore sedotto che conserva nel suo viso un’innocenza infantile. Non è il volto del Don Giovanni. I suoi tratti sono quasi indecidibili come di chi deve ancora crescere e diventare adulto. A volte scaltro, beffardo ma più che altro infantile, anche superficiale, c’è dello stupore nel suo sguardo così come nell’atteggiarsi delle labbra.
Giovanna è una donna fatta, spesso il riso e lo sguardo sprezzanti. Si può ipotizzare che l’abbia fatta crescere proprio la sua condizione femminile in un mondo più favorevole agli uomini. Nonostante Giovanna sia dipinta come avida e interessata, non si può non intravedere in lei un essere violentato nella sua condizione di donna degli anni ’40; una donna che non può esprimere e vivere la propria libertà come può farlo Gino.
Pur risultando il personaggio più negativo nel film, andate a vedere come la riprende Visconti nella scena della sedia (che trovate nei primi 20 minuti del film). Difficile raccontare la delicatezza e l’amore che Visconti mette nel narrare la sua creatura in questa sequenza: sembra una bambola di pezza, la sola immagine del corpo ne coglie l’anima spezzata – molto brava Clara Calamai.
Non la rivedremo più così in seguito, ma altera, decisa, una donna che sa quello che vuole e come ottenerlo, e ci sarebbe riuscita se fosse stato possibile padroneggiare le persone e gli eventi della vita come fossero oggetti. Emerge chiaro nel film come chi vuole padroneggiare prima o poi viene sottomesso da un padrone, fosse anche semplicemente la realtà: essere padroni è un’illusione. Il padrone è destinato a soccombere. Se ci guardiano intorno sembra un’osservazione irreale ma pensate ai due grandi presunti padroni dell’epoca, siamo nel ’43, nel giro di due anni Mussolini e Hitler finiranno come Bragana e Giovanna.
È nel genio di Visconti narrare la storia sociale a partire dalla storia individuale, delle relazioni interpersonali – così come potrà narrare le atrocità del regime nazista, la decadenza e l’alone di morte di un’epoca attraverso la perversione dei protagonisti ne La caduta degli dei.
Ossessione apparentemente non risulta un film di denuncia, non sarebbe stato possibile proiettarlo; diversi progetti filmici di Visconti erano già stati bocciati dal regime. È una racconto nel quale si intrecciano modi differenti di sopravvivere e vivere davanti alla crudeltà della vita. Così accanto a una figura di donna volitiva come Giovanna, che vuole l’amore e la sicurezza sociale, vediamo sorgere, in un momento del film, il volto, delicato – anch’esso ha qualcosa di infantile – di una giovane prostituta.
Anita con il suo viso angelico, lo sguardo civettuolo adolescenziale, ha un sogno nel cassetto: lavorare come ballerina – ogni tanto in effetti fa la comparsa in qualche spettacolo. Non tenta l’arrampicata sociale, chissà, forse proprio perché ha un sogno nel cassetto e i sogni difficilmente, per non perdersi, possono accettare il compromesso della sicurezza.
Il desiderio e l’ossessione
Il sogno di Giovanna è l’amore e l’orologio d’oro, oggetto-feticcio che dovrebbe assicurarle un godimento senza rischio di cadute – dirà Gino ad un amico: “ha paura di essere povera”. Il desiderio in lei si mischia all’ossessione. Il termine ossessione viene dal lat. obsessio “occupazione”, nome d’azione di obsidere “assediare”. La persona ossessionata dà l’impressione di assediare gli altri; in fondo è lei ad essere “occupata”, interamente, da un pensiero fisso o meglio un desiderio fisso che nel momento in cui si riversa su un soggetto non gli lascia più spazio, riduce l’altro a puro oggetto. Ma quando noi pensiamo al desiderio pensiamo allo spazio aperto, come metafora di libertà e possibilità.
Una differenza che forse possiamo tracciare tra desiderare ed essere ossessionati da un desiderio è che nel primo caso il desiderio è un faro, illumina il proprio cammino che resta libero di procedere senza necessariamente inciampare; nel secondo caso il percorso è già tracciato da un’idea che ne fissa la meta senza fare i conti con la realtà, con la differenza dell’altro. Nel caso dell’ossessione la sua completa soddisfazione comporterebbe metaforicamente la morte dell’Altro nel senso che lo si mette a tacere, lo si priva della sua soggettività.
Ritorniamo alle scene del film per capire qualcosa della trama.
Giovanna chiede a Gino: “Mi potrai voler bene sempre? Abbastanza per non desiderare niente altro?”. Secondo voi come procede la storia? Quello che abbiamo visto finora dove può portare? In una serie di intrecci, che non vi racconto per non togliere ogni sorpresa a chi vorrà vederlo, Gino traduce con l’azione la volontà di Giovanna di uccidere il marito.
Una volta morto il marito Giovanna vuole assolutamente riaprire lo spaccio e vivere felicemente la sua vita da possidente (adesso possiede sia l’amore che l’orologio d’oro) anche contro il parere di Gino che invece viene investito dal senso di colpa. Egli vede il Bragana dappertutto, vorrebbe partire, lasciare tutto, allontanarsi dalla sua colpa. Naturalmente vince Giovanna che riapre lo spaccio. Poi accadono altre cose. Impossibile fare l’analisi di tutta la storia, ci vorrebbero più ore, possiamo solo mettere l’accento su qualche punto, sul desiderio, ad esempio.
Dicevamo che la soddisfazione di un’ossessione comporta la morte simbolica dell’altro, nel senso di metterlo a tacere: Gino si aggira come un recluso nello spaccio, beve, passa il suo tempo chiuso nella stanza da letto che era stata del Bragana. Un suo caro amico va a trovarlo, vorrebbe liberarlo, portarlo via con sé, ma Gino non può muoversi, il suo passo leggero si è fermato.
L’infantile: inventare giocando
C’è un momento nel film in cui Gino fa amicizia con un artista di strada. In una sequenza i due amici chiacchierano ma fate attenzione all’intero scenario.
Avete notato gli omini che camminano sui davanzali sul tetto della chiesa? Da dove vengono fuori questi omini, non stanno lavorando, cosa ci fanno rischiando il collo sul tetto, sembra che si divertano, che giochino come bambini, impavidi o incoscienti del pericolo? Lo stesso clima del lavoro di strada richiama l’atmosfera del gioco e anche Bragana in alcuni momenti è un bambinone che gioca. Lo troviamo ad Ancona che canta l’Andante della Traviata, vincendo, tutto contento, il primo premio per la voce più bella.
Volevo mettere in evidenza l’aspetto ludico in quanto, come accennavo all’inizio, mi sembra che l’infantile ci permette una delle letture possibili del film.
Freud quando parla dei desideri inconsci dice che essi sono infantili, non solo perché provengono dall’infanzia, dalle prime esperienze, ma anche perché sono ostinati e risultano inestinguibili, continuano a domandare, caratteristiche che avviciniamo all’infantile in quanto non rinuncia. Soprattutto esso non rinuncia a giocare, cioè a mettere in scena il teatrino dei suoi desideri: quindi non rinuncia ma trasforma. Cerco di spiegarmi. È vero che i bambini hanno dei desideri incestuosi – quando si investigano le fantasie connesse con la masturbazione infantile, questo risulta evidente –, ma non pensano assolutamente a metterli in pratica, essi diventano e restano inconsci perché inammissibili. Realizzarli sarebbe traumatico, come avviene nei casi di abuso.
I bambini, come anche gli adulti, nel momento in cui subiscono abuso diventano un oggetto reale del godimento dell’Altro; condizione che non permette di passare alla posizione soggettiva, una condizione che desoggettivizza. Il divieto dell’incesto ha una funzione simbolica: interviene proprio a impedire che il bambino resti intrappolato nel godimento dell’altro, materno o paterno.
Quando noi parliamo del desiderio bisogna forse ammettere che la sua radice immaginaria è perversa, nel senso che si vorrebbe godere dell’altro liberamente come se fosse un fantoccio, ma una cosa è volerne godere e una cosa è assoggettarlo.
I bambini ci insegnano che il desiderio si realizza solo per via simbolica, cioè attraverso il gioco, che è una forma di simbolizzazione e di trasformazione: giocando mettono in scena i loro desideri impossibili e ne fanno qualcosa d’altro, una produzione: giocare è lavorare, elaborare il proprio pensiero. Allo stesso modo l’artista gioca con le sue fantasie, che sono traduzioni del suo desiderio inconscio, dando vita a delle produzioni che potranno essere più o meno interessanti a seconda di quanto egli ha trasformato ciò che inizialmente ha innescato il lavoro. Forse potremmo dire quanto più l’ha metaforizzato.
Giocare è sicuramente quello che fa il regista che vuole parlare della libertà in pieno fascismo. Visconti trova il modo di rivendicare la sua libertà di parola attraverso una sostituzione di materiali: parla di amori tragici invece che di guerra e di politica, e la trova davvero la libertà di dire e di dirsi. Anche se poi sarà censurato, oggi Ossessione può essere definito un classico.